Buongiorno a tutti, cari lettori.
Vi presento oggi il trentesimo articolo del mio blog professionale, che ho deciso di incentrare su un fenomeno molto importante che è stato indagato dalla psicologia sociale.
Sto parlando del cosiddetto “effetto spettatore”.
Prima di spiegarvi in che cosa consiste, vi voglio descrivere uno scenario in cui nella società di oggi è purtroppo molto facile trovarsi o di cui è frequente essere testimoni.
Immaginate di trovarvi in una sala d’aspetto.
Magari – perché no? – nella sala di aspetto di uno psicologo.
All’improvviso, mentre siete comodamente seduti in attesa di essere ricevuti o intenti a leggere una rivista di settore, notate del fumo uscire da sotto la fessura di una porta.
Il fumo inizia a diffondersi nella stanza.
Ecco la prima domanda: come pensate che reagireste?
Pensateci un attimo prima di proseguire con la lettura.
Ora immaginate di non essere soli nella sala d’aspetto, e che intorno a voi ci siano altre persone.
Ed ecco il secondo quesito che vi pongo: dinanzi a quelle medesime spirali di fumo, prima di prendere una qualsiasi decisione, cosa pensate che fareste?
Ebbene, sappiate che questo scenario ha costituito un vero e proprio esperimento organizzato nel 1968 da due psicologi, John Darley e Bibb Latané, che hanno esaminato le reazioni di alcuni studenti convocati in una sala d’attesa, appunto, con il pretesto di compilare un questionario.
Sapete che cosa è emerso?
Che la gente si mobilita per chiedere aiuto, potreste dire, e che questa è una conclusione piuttosto ovvia.
Non così ovvia, in realtà.
Il fatto è che, infatti, quando nella sala era presente un unico soggetto, questi cercava prontamente soccorso nel 75% dei casi.
Quando però vi erano più individui, soltanto nel 38% dei casi qualcuno si adoperava per allertare della situazione entro i primi sei minuti.
Lo stesso risultato si verificava quando in mezzo alle persone ve ne erano due che, complici degli sperimentatori, avevano istruzioni di fingere disinteresse.
Avete quindi intuito che cos’è l’effetto spettatore (in inglese, “Bystander Effect”)?
Esso asserisce che gli esseri umani, in situazioni di pericolo o di emergenza, sono più propensi ad intervenire se si trovano soli, mentre se sono inseriti in un contesto gruppale – o comunque in compagnia di altre persone, anche se estranee – si mostrano più restii ad agire. La tendenza a procrastinare (“PERCHÉ FARE OGGI QUELLO CHE SI PUÒ FARE DOMANI?”), cioè a rimandare nel tempo qualunque tipo di azione concreta, insorge a maggior ragione se non si rilevano segnali di preoccupazione o di allarme da parte dell’ambiente circostante, costituito dagli altri “spettatori”.
Questo fenomeno è noto anche come “teoria dell’ignoranza pluralistica”, o con termini come “apatia dello spettatore” o “effetto testimone”.
Questa scoperta psicologica ha quindi dimostrato che, per stabilire un piano di azione o per prendere una decisione, le persone si affidano non soltanto al proprio giudizio basato sull’osservazione diretta degli eventi, ma anche all’interpretazione e alla rilevanza che altri individui sembrano darne tramite il loro atteggiamento e il loro comportamento (vedete anche l’articolo “IL BULLISMO, parte II – GLI ATTORI DEL BULLISMO”).
Ma cosa spinge una persona a mantenersi nel ruolo di puro e semplice osservatore anche quando testimone di un episodio increscioso, minaccioso o violento?
Esistono alcuni fattori principali, che procedo ora ad illustrarvi.
- Il primo è la numerosità del gruppo.
Ciò significa, come ho già spiegato, che al variare del numero dei presenti muta anche la propensione all’aiuto. Non solo, il rapporto esistente tra queste due variabili è una vera e propria proporzionalità diretta. L’inevitabile implicazione è che quante più sono le persone coinvolte, tanto più è probabile che il singolo individuo si astenga dal mobilitarsi per soccorrere chi necessita di assistenza.
Il meccanismo per cui ciò si verifica è noto in psicologia come “diffusione di responsabilità”. Secondo tale dinamica, la responsabilità (o la vera e propria colpa) di un’azione commessa – o di un’omissione che ha provocato altrettante conseguenze – viene ripartita tra i vari membri di un gruppo in modo tale che a sobbarcarsi la gravità di un fatto sia proprio l’entità sovraordinata che è appunto il gruppo.
In tal modo, il ruolo ricoperto da ogni singolo individuo risulta attenuato – sia per l’opinione pubblica che ai suoi stessi occhi – e l’assunzione di responsabilità non solo viene evitata in quanto considerata superflua, ma diluita all’interno del gruppo e per questo sminuita e minimizzata.
Si ha quindi l’impressione che la nefasta decisione di nuocere a qualcuno – e il biasimo ad essa correlato – non sia completamente da attribuire a nessuno di preciso.
Ognuno scarica quindi ad altri l’onere di qualsivoglia intervento, in quanto la percezione di un’atmosfera di inerzia generale lo fa sentire svincolato e affatto in dovere di prendere una posizione.
- Altri due elementi determinanti sono il livello di ambiguità e il rischio percepito.
Si interviene cioè più facilmente in situazioni in cui si avverte chiaramente che qualcuno è in pericolo o in cui è reputata elevata o comunque non troppo bassa la probabilità di uscirne a propria volta indenni una volta che si è prestato il proprio aiuto.
Nella società di oggi, infatti, il timore per la propria incolumità – peraltro spesso e purtroppo inevitabile e giustificato – frena e spegne l’impulso di andare incontro all’altro in quanto “animale sociale” come lo siamo noi, portando talvolta a conseguenze drastiche per chi ci circonda e rendendoci sempre “meno umani”.
- Una quarta importante variabile è il senso di autoefficacia che ognuno di noi ritiene di avere.
Ciò vuol dire che la probabilità di aiutare qualcuno in uno stato di bisogno aumenta se si pensa di avere sufficienti competenze per intervenire, favorendo il benessere di quella persona e non invece aggravandolo ulteriormente. Se, al contrario, ci si reputa incapaci di fornire un qualunque tipo di sostegno, è facile che ci si asterrà dall’assumere una condotta più attiva.
- Un aspetto fondamentale è anche costituito dalla cosiddetta coesione sociale, e nello specifico dalla relazione di somiglianza che lo spettatore ravvisa tra sé e la vittima.
Ad esempio, se costui riscontra di avere in comune con la persona in difficoltà qualche caratteristica – solitamente ciò avviene per caratteristiche più visibili, immediate o facilmente identificabili quali il genere (maschio/femmina) o l’etnia –, proverà una maggiore empatia e si sentirà più propenso a mostrarsi disponibile e solidale.
- Infine, anche se può sembrare scontato, per poter intervenire bisogna accorgersi che qualcosa non va o che qualcuno necessita di aiuto. E una dimensione che influenza questo aspetto, stavolta di tipo culturale, è rappresentata dall’atteggiamento da assumere in pubblico.
Specialmente nelle società occidentali, non viene infatti etichettato come buona educazione soffermarsi con lo sguardo su ciò che ci accade intorno. Per questo motivo, soprattutto nei posti affollati, tendiamo a isolarci e a restare concentrati su noi stessi molto più di quanto faremmo se fossimo da soli, come in una piccola bolla dai confini tanto labili quanto ostinati.
Allo stesso tempo, se due persone stanno, ad esempio, litigando per strada e ci sembra che lo scontro stia diventando impari, siamo più propensi ad intervenire se abbiamo l’impressione che vittima e aggressore siano tra loro estranei. Se invece riteniamo che si conoscano o siano addirittura imparentati, con molta più probabilità il nostro intervento viene considerato, da noi in primis, alla stregua di un’inopportuna intromissione e viene pertanto scoraggiato.
A volte quindi si configura come difficile stabilire se sia appropriato o meno intervenire in una situazione di pericolo o di emergenza (vi consiglio a tal proposito la lettura del mio articolo “IL CONFLITTO DECISIONALE – QUANDO RISULTA DIFFICILE SCEGLIERE”): bisogna infatti notare un evento fuori dalla norma o dall’ordinario, essere consapevoli della sua natura rilevante, comprendere che si profila come necessario l’intervento da parte di qualcuno e infine, dopo un più o meno efficiente bilancio – condizionato anche da imbarazzo, insicurezze e paure – decidere se questo qualcuno dobbiamo essere noi.
Ma è proprio conoscendo e tenendo in considerazione tali fattori che potremo essere in grado di affrontare al meglio la varietà e instabilità di simili circostanze, tanto difficili quanto delicate.
Il mio SITO WEB (consulenze, video-sedute, aree di intervento, recensioni e contatti):
Psicologo Treviglio – Dott. Jacopo Pesenti – Studio di Psicologia
Cari lettori, spero che abbiate trovato piacevole ed interessante la lettura di questo mio articolo ed utile la disamina che ho effettuato circa i meccanismi che ci possono portare ad essere omissivi in caso di soccorso.
E voi? Vi siete mai trovati in un contesto che richiedesse il vostro aiuto? Se sì, come vi siete comportati? Che cosa vi ha spinto ad agire o, in caso contrario, a trattenervi dal farlo?
Non da ultimo, vi è mai successo di trovarvi nel ruolo opposto, di essere cioè voi bisognosi di soccorso o sostegno? In tal caso, che reazioni avete riscontrato nelle altre persone?
Mi raccomando, fatemi sapere se questo scritto vi è piaciuto, condividetelo e lasciate un commento a quanto avete appena letto, che sia per replicare a uno specifico aspetto, per porre una domanda, per raccontare la vostra esperienza o per chiedere approfondimenti e delucidazioni.
Nel frattempo, non mi resta che darvi appuntamento al mio prossimo articolo.
A presto!
Dott. Jacopo Pesenti