Buongiorno a tutti voi, cari lettori.
Con l’articolo di oggi, intendo intraprendere un’analisi approfondita del concetto di patologia psichica – concetto che ritengo indispensabile comprendere perché possiate meglio intendere e apprezzare gli scritti futuri che ho intenzione di pubblicare in merito a molteplici e variegati disturbi.
Questo articolo e quelli che lo seguiranno fino al completamento di questa sezione costituiscono quindi un’inquadratura – o così perlomeno mi auspico sia per voi – in grado di darvi la giusta prospettiva per valutare più realisticamente la malattia mentale.
Definire la patologia della psiche, infatti, non è tanto facile quanto ci si potrebbe aspettare. Di conseguenza, può essere molto difficile anche stabilire quali condizioni siano da far rientrare sotto l’etichetta di disturbo mentale.
È davvero corretto far coincidere la malattia con la diversità?
Come ho già affermato nel mio primissimo articolo, questa è una visione molto riduttiva e semplicistica, spesso addirittura fuorviante, se non pericolosa.
E per quanto concerne il rapporto tra “normalità” e “diversità”? Cosa è normale? Cosa è diverso?
Ed è innanzitutto realistico adottare questi due termini per descrivere una realtà multiforme e mutevole quale è quella umana?
Su questi ultimi quesiti avrò modo di discutere a lungo e a fondo. Avrete anzi forse già notato che di risposte a queste domande ho già riempito e riempirò molti miei scritti, indipendentemente dalla tematica che in essi affronto, proprio perché sono alla base di qualsiasi tipo di valutazione e giudizio che l’essere umano si arroga il diritto di compiere nei confronti di ogni cosa – tra cui i suoi simili.
Fin da ora ci tengo però a condividere con voi una frase – partorita con parole mie, ma il cui contenuto spero dimori sempre più come convinzione anche nelle menti di numerose altre persone – che credo sintetizzi al meglio quello che sostengo fermamente tanto nella pratica della mia professione di psicologo quanto nella mia vita personale.
E cioè:
“L’unica cosa normale a questo mondo è proprio la diversità.”
Tenendo ben presente questo mio “aforisma”, vi invito ad addentrarvi con me nei meandri del primo criterio che gli specialisti della salute mentale possono adottare per verificare se la psiche di una persona sia sana oppure in qualche modo compromessa.
Esistono infatti cinque criteri – non vi elenco volontariamente i prossimi quattro per non rovinarvi la sorpresa – che sono stati proposti a tale scopo. Il mio obiettivo, che intendo raggiungere con questa sezione di articoli, è quello di illustrarveli, analizzarli e porre l’attenzione su quali secondo me sono i limiti e i punti di criticità che essi comunque presentano – e a cui si dovrebbe quindi prestare particolare attenzione per evitare di incappare, come psicologi ma anche come persone non del settore in ogni momento della nostra vita quotidiana, in errori grossolani o esiti deleteri.
Il primo criterio è denominato richiesta di aiuto.
Il principio su cui si basa tale parametro è che la predisposizione a cercare sostegno rappresenta un indicatore del grado di sofferenza della persona e dunque della gravità della sua condizione.
Quest’ultima la esorterebbe così automaticamente a chiedere soccorso e assistenza per il suo disagio, che così emergerebbe palese agli occhi del professionista.
Si configura immediatamente il primo importante limite di questo criterio. L’assunto per cui una persona bisognosa si rivolga celermente a un servizio della salute mentale – che sia pubblico o privato – è tutto da dimostrare: anzi, l’esperienza quotidiana di ciascuno ci insegna esattamente il contrario.
È comune prassi, per la maggior parte delle persone, attendere il più possibile prima di prendere la decisione di recarsi da uno specialista, soprattutto se attribuiscono le loro difficoltà a cause emotive o psicosociali.
I motivi possono essere i più vari: pregiudizi circa la figura dello psicologo, confusione circa le differenze tra la professione psicologica e quella psichiatrica, timore dell’altrui giudizio qualora divenisse nota la loro scelta di adoperarsi in tal senso, ostinazione a tentare in tutti i modi di “farcela da soli”, paura di scoprire aspetti di sé che si preferisce ignorare, nonché tendenza a rimandare nel tempo (per approfondire il concetto di procrastinazione, vi suggerisco la lettura di un mio precedente articolo, “Perché fare oggi quello che si può fare domani?”).
Già questo elenco – che reputo sufficiente ma che potrei ulteriormente estendere – dovrebbe avervi fatto capire la moltitudine di ragioni che potrebbero far desistere l’individuo a prendersi carico di se stesso e della propria salute affidandosi alle competenze di un professionista.
A tutto questo, aggiungete che a volte le persone, pur presentando alcune problematiche, possono non essere consapevoli delle stesse, fino addirittura ad usufruire di alcuni vantaggi derivanti dalla loro condizione.
Questo è il caso tipico di coloro che presentano un disturbo cosiddetto egosintonico.
Dal latino ego, che significa “io”, e dal greco antico syntonía, cioè “accordo di suoni”, l’etimologia indica tutte quelle patologie – ma anche i pensieri, gli stati d’animo e le convinzioni – vissute non come disturbanti, bensì come congrue alla propria identità e consone alle proprie esperienze di vita.
Non provocando quindi uno stato conscio di disagio, la persona è portata a credersi sana e – indipendentemente dal livello di gravità – a valutare come superflua qualsiasi tipologia di intervento nei suoi confronti.
Un esempio può essere rappresentato dai disturbi di personalità, che vi illustrerò all’interno di futuri articoli e che, come già vi allertavo nel primo articolo del mio blog, non devono essere confusi con il mediatico disturbo di personalità multipla – ora denominato disturbo dissociativo dell’identità.
Anche i disturbi d’ansia e dell’umore, se di lieve entità, possono non risvegliare la consapevolezza dell’individuo di avere un problema, e così può essere anche per certi tipi di dipendenze, che, specialmente nelle fase iniziali, procurano esclusivamente sensazioni di benessere, grandezza ed euforia, che ben raramente conducono alla ricerca di un servizio di salute mentale.
Tutt’altro discorso rivestono invece le patologie egodistoniche, accompagnate da un più o meno profondo – ma comunque significativo – malessere, da cui origina il fisiologico ed auspicabile desiderio di agire affinché questo scompaia o si riduca.
Gli stessi disturbi d’ansia e dell’umore che ho citato poc’anzi, ad esempio, se di entità moderata o severa si rivelano invece destabilizzanti per l’individuo.
L’umore notevolmente e persistentemente basso, la drastica riduzione della motivazione, la perdita dell’appetito (quando non accade il contrario), il senso di affaticamento ed eventuali pensieri suicidari sono esempi di sintomatologia egodistonica.
Parimenti, l’elevata apprensione e l’eccessivo senso di allerta tipici dei disturbi d’ansia, nonché le intense reazioni fisiologiche dell’organismo durante gli attacchi di panico, costituiscono un disagio rilevante per i soggetti che ne sono caratterizzati, che sono così più inclini a chiedere aiuto per la sofferenza che provano.
Indipendentemente dal fatto che la scelta più saggia sarebbe quella di ricorrere ad un professionista ogniqualvolta si vive una qualche forma di disagio – anche quando questa non coincide con un vero e proprio disturbo psichico –, l’egosintonia di molte condizioni costituisce un limite per nulla trascurabile del primo criterio per individuare una patologia.
Alcuni vissuti spiacevoli possono comportare una richiesta d’aiuto senza corrispondere per questo ad un disturbo conclamato, mentre esistono numerose combinazioni cliniche di accertato spessore che non implicano uno stato immediato di afflizione, né così tantomeno la decisione di preoccuparsi per la propria salute.
Un’ultima considerazione che vorrei fare è la seguente: anche noi professionisti della salute mentale – psicologi, psicoterapeuti, psichiatri – dovremmo essere molto più cauti a dare per scontato che le persone che si rivolgono a noi siano automaticamente affette da un disturbo psichico.
Nella mia esperienza, constato più che spesso che non è così.
Se fossimo capaci noi per primi a non etichettare immediatamente ogni cosa come patologica semplicemente perché qualcuno se ne lamenta, probabilmente molte persone sarebbero meno propense a credere allo stereotipo secondo cui “chi va dallo psicologo è per forza un malato mentale”.
Sito web di psicologia (consulenze, video-sedute e contatti):
Psicologo Treviglio – Dott. Jacopo Pesenti – Studio di Psicologia
Spero che questo articolo – il primo di una serie – abbia riscosso il vostro interesse, e soprattutto mi auguro possa essere stato per voi una preziosa opportunità per riflettere su una tematica tanto fondamentale quanto spinosa e delicata quale è quella del rapporto tra salute e malattia.
Pur avendo comunque una certa influenza, rispetto al primo criterio che qui vi ho esposto – la richiesta di aiuto, appunto – scoprirete che i prossimi quattro possono essere via via più utili e affidabili nel discernimento di ciò che è sano da ciò che è patologico.
Come sempre, vi invito a lasciare dei commenti a quanto avete appena letto, comprese domande per approfondire determinati aspetti e vostre curiosità.
Avevate mai riflettuto su un argomento così arduo e complesso? Quante volte vi siete domandati se una determinata caratteristica – vostra o di qualcun altro – sia dopotutto accettabile e adatta – molti direbbero “normale” – oppure riconducibile a un qualche tipo di disturbo?
Nel frattempo, vi do appuntamento al mio prossimo articolo.
A presto!
Dott. Jacopo Pesenti
Buongiorno Jacopo, la frase riportata nell’articolo “l’unica cosa normale a questo mondo è proprio la diversità” mi ha colpito nel profondo e mi interessa particolarmente (oltre ad essermi piaciuta davvero moltissimo). Di fatto le parole normale e diversità hanno fatto sempre parte di me fin dall’infanzia. Ho scoperto sulla mia pelle che molte persone giudicano la normalità, l’integrità mentale ed il livello d’intelligenza solo in base all’aspetto fisico, insomma quello che per primo salta agli occhi senza tentare neppure di guardare e scavare sotto la superficie.
Questo mi fa pensare che molte volte anche il nostro modo di comportarci può essere travisato, per dirne una: la timidezza in una persona può essere scambiata per ritrosia, per quella che se la tira, per quella snob, o anche che magari è un po’ “tardona”.
O anche il fatto di pensare diversamente può far dire che, siccome la maggior parte del gruppo la pensa in un certo modo, chi usa la propria testa sia da considerarsi fuori dal normale o abbia qualche “problema mentale”.
Certamente se si conosce qualcuno che pensa e vive la propria vita al di fuori dei canoni percepiti come normali, si pensa che questa persona sia diversa ed è quindi bollata come tale, anche se la persona in questione ha sempre considerato il suo modo di vivere una cosa per sé normale.
Può succedere anche che se si cerca l’aiuto di uno specialista e questo non capisce che tu sei così per tua scelta, lo sei da una vita e non ti è mai pesato, anzi ti ci sei sempre ritrovato e la cosa non l’hai mai considerata come se fosse una scelta sbagliata, ma una tua volontà di vivere come meglio credi senza nuocere agli altri e questo specialista ti rimanda da uno psichiatra e questo afferma che ti sei creato una personalità da super eroe e che nella vita il tuo comportamento non è consono ai criteri ritenuti normali…. capisci che ti crolla il mondo addosso.
Questo è successo ad una persona a me vicina e cara. Posso affermare che la persona in questione è altruista e buona e non mente quando afferma alcune cose che gli vengono contestate da specialisti che secondo me hanno i paraocchi e non vedono al di là del loro naso (questa è un’opinione mia personale). Per fortuna non tutti gli specialisti sono a questi livelli e certamente cercano di capire a fondo l’animo dell’individuo prima di etichettarlo.
Come giustamente scritto nell’articolo bisognerebbe andare cauti nell’affermare cosa sia normale e cosa non lo sia. Sta di fatto che la parola MANICOMIO era scritta fuori…..
Dico che la frase L’UNICA COSA NORMALE A QUESTO MONDO E’ LA DIVERSITA’, è per me una verità sacrosanta e molto utile a farci riflettere, perché moltissime volte è nelle persone più semplici e genuine che si scopre un insegnamento o una delle tante verità che il nostro guardare solo in superficie non ci permette di cogliere.
Non voglio certo sostituirmi a professionisti seri, dico solo che ci vorrebbe anche una piccola dose di umiltà e di umanità nello svolgere il proprio lavoro, visto la situazione delicata che si presenta ai loro occhi. So che la mente umana è alquanto complicata da valutare, ma spesso basta un briciolo di sensibilità……
Chiedo scusa se qualcuno si sia sentito tirato in causa e si sia offeso, ma credo che anche un giudizio poco apprezzato possa in qualche modo aiutare a guardarsi dentro e, oltre che capire se stessi aiuti a capire anche gli altri.
Un caro saluto da Patrizia.
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Buonasera Patrizia!
Mi rende molto felice il fatto che la mia frase-aforisma ti sia piaciuta, specialmente avendone provato tu stessa sulla tua pelle le implicazioni.
Purtroppo è così, molto spesso le persone vengono considerate malate o deviate solo perché non rientrano nelle categorizzazioni standardizzate che altri – magari anche a torto in partenza – tendono a imporre loro.
Proprio in merito a ciò, se lo vorrai, troverai ulteriori specificazioni e riflessioni sul terzo articolo che ho intenzione di scrivere nella sezione “Salute e malattia”.
Anche per me “sensibilità” è una parola chiave: professionisti o meno – e nel primo caso vi è ancora una ragione in più per farlo – occorrerebbe sicuramente da parte di tutti una maggiore apertura mentale, una disponibilità ad ascoltare e a conoscere il mondo intimo e personale di ogni individuo, prima di permettersi di valutarli – e di giudicarli! – più o meno “sani”.
Grazie ancora per il tuo commento, Patrizia.
Ti auguro una buona serata e alla prossima!
Dott. Jacopo Pesenti
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Caro Dottore,
mi piace la sua preferenza ad usare la definizione di sofferenza di un essere sensibile anzichè il termine disturbo. In effetti nella maggior parte dei casi è preponderante l’aspetto psicologico, rispetto a quello chimico.
Tuttavia ho imparato che bisogna comprendere l’omeostasi del soggetto in toto, vale a dire quel fragile equilibrio psico-fisico che ci caratterizza.
Purtroppo gli ambienti lavorativi hanno un non so che di malsano e di crudeltà verso tutti coloro che non si uniformano alle masse. Sono visti come dei diversi e quindi pericolosi perché “spiriti liberi” e creativi in tutta la loro essenza.
Io mi sono accorta che la sensibilità permette ad un lavoratore di vedere al di là di ciò che vede, diciamo scherzando, “un comune mortale” e di sentire cose che altri non sentono.
E’ questa differenza che lo rende speciale, non solo la velocità, il raggiungere gli obiettivi del team, utilizzare strategie adatte e studiate per un determinato scopo.
Io mi auguro che tutti gli specialisti della mente agiscano con scienza e coscienza e non perchè spinti dal seguire le mode del momento o che la società farmaceutica impone loro se si tratta di Medici.
Ammetto che il lavoro è molto arduo da parte di tutti e che i problemi della mente sono in aumento e si stanno complicando sempre più a causa della frenesia e dello stress dilagante e di elementi concomitanti.
Quindi auguro buon lavoro a tutti coloro che credono nelle scienze della mente.
Cari saluti
Paola B.
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Grazie mille del suo commento, Paola!
Sono contento che abbia colto il mio pensiero e che lo condivida a sua volta.
Sono d’accordo: come abbiamo più volte avuto modo di dirci, sono fermamente convinto che ogni persona debba essere considerata nella sua totalità, cogliendone le caratteristiche sia biologiche che psicologiche, sia cognitive che socio-relazionali – oltre all’enorme peso ricoperto dalle esperienze di vita.
Grazie del suo augurio finale, lo estendo anch’io a tutti quanti esercitano come me una professione d’aiuto e in particolar modo a tutti coloro che hanno la necessità e/o il desiderio – eventualmente mescolati alla paura – di scoprire se stessi, le proprie risorse e le proprie potenzialità.
Le auguro una buona serata e – se lo vorrà – al prossimo confronto!
Dott. Jacopo Pesenti
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Buongiorno, Jacopo.
Oggi ho trasformato il riposo impostomi dal piede rotto in un’opportunita per scoprire cosa sia la psicopatologia.
In effetti, concordo nel pensare che questo criterio vada preso un po’ con le pinze..
Può fatti accadere che, chi più ha bisogno di aiuto, non abbia la lucidità per comprendere quanto gli sarebbe di giovamento rivolgersi ad uno specialista per ottenerlo.
Per contro, una richiesta di aiuto, non si configura obbligatoriamente comeindice di malattia o disturbo, ma può anche essere espressione di un desiderio dell’individuo di migliorare se stesso o particolari ambiti della sua esistenza, o ancora di comprendere meglio determinati aspetti delle sue relazioni con gli altri.
Un caro saluto
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Buonasera Elisa,
ho avuto molto piacere a ricevere il tuo commento.
Sì, in effetti, come scrivevo all’interno dell’articolo, reputo questo il criterio meno valido e obiettivo per riscontrare in un individuo segni di una psicopatologia.
E, proprio per questo, ho ritenuto utile esporlo ed evidenziare i rischi di una sua acritica adozione.
Comprendere questo criterio significa infatti anche sfatare il falso mito circa il fatto che chi si rivolge a uno psicologo sia necessariamente una persona affetta da un disturbo mentale.
Vedrai che gli altri criteri che ho già illustrato nei successivi articoli di questa rubrica, ognuno con i propri limiti, ti forniranno un quadro sempre più completo sulla procedura di diagnosi di una psicopatologia.
Intanto ti auguro di cuore una rapida e pronta guarigione per il tuo piede.
A presto!
Dott. Jacopo Pesenti
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